L'avvento
dell’era digitale ha determinato negli ultimi anni un interessante
dibattito critico,
orientato verso una necessaria ridefinizione del concetto di riproducibilità meccanica
e
oggettiva della realtà da parte del mezzo fotografico, stimolando
gli studiosi più attenti ad un
rinnovamento del proprio approccio interpretativo.
Il digitale ha realmente aperto nuove frontiere creative? Ha svincolato
il linguaggio fotografico
dalla referenzialità del dato reale?
Le sperimentazioni effettuate ai primi del Novecento da grandi
artisti come Man Ray, Christian
Schad o Lázló Moholy-Nagy ci fanno pensare che l’affrancamento
della fotografia dalla fredda
documentazione oggettiva risalga già a ben un secolo fa. È proprio
questo approccio “artistico”
(Man Ray, Schad e Moholy-Nagy non sono ricordati dalla storia dell’arte
come “fotografi” tout
court, ma come “artisti”) ad aver aperto le porte alla
metamorfosi della fotografia: da medium
di riproducibilità meccanica della realtà ad autonomo
linguaggio creativo.
Ciò che nel 1859 Baudelaire imputava alla fotografia quale
lacuna incolmabile rispetto alla
più tradizionale pratica pittorica, e cioè “un’estrema
facilità produttiva, tale da non richiedere
quasi alcun intervento creativo da parte dell’autore, e poi
ancora una resa troppo speculare
e troppo oggettiva della realtà” (cfr. Claudio Marra,
L’immagine infedele), viene smentita già
dalle Avanguardie Storiche con una creatività rinnovata,
ampiamente dimostrata anche dalle
realizzazioni concettuali degli anni Settanta. La fotografia diviene
linguaggio espressivo a
sé, svincolato dalla “dittatura del reale”,
in grado di riflettere su se stessa e sulle proprie
dinamiche creative interne.
Il termine “noema”, parola greca che significa “pensiero” o “concetto” opposto
a
“
sensazione”, “dato sensibile” (àisthëma)
diviene, nel contesto di questa esposizione, il
principale elemento di una “fenomenologia dell’invisibile”.
Ciò che la mente coglie e riesce
ad elaborare dall’esterno, diventa immagine interiorizzata,
visualizzata e concretizzata con un
gesto che trascende la “forma percepita” in una emanazione
del pensiero. Esattamente Arte.
Come è spiegato dalla filosofia aristotelica, nella quale “il
noema” si origina dalla elaborazione
ad opera della phantasìa, l’immaginazione, di dati
sensibili occasionalmente colti, contingenti,
che danno luogo alla fine a immagini mentali che invece non mutano
(phantàsmata).
Gli artisti invitati presentano lavori che portano al limite delle
sue potenzialità
la tecnica analogica (quindi vincolata, almeno nel momento della ripresa, al
dato
fenomenico) presentando esiti paragonabili alla tecnologia digitale, mantenendosi
saldamente al confine tra le due metodologie.
È una sorta di “ibridazione” delle tecniche, una commistione
di linguaggi simili ma
differenti, che portano a risultati inediti.
PhotoNoema significa quindi “fotografia del pensiero”. La nuova realtà che
la
fotografia indaga non è solo quella fenomenica. L’artista non rivolge
l’obiettivo
soltanto verso la realtà esterna, ma se lo punta contro, dentro di sé.
Scatta immagini
che rispecchiano uno stato mentale, una vibrazione emotiva, una condizione psicologica.
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In questo modo egli crea una realtà parallela
ed interiorizzata, invisibile
allo sguardo ma intimamente e fortemente vissuta. La fotografia
può registrare
emanazioni e temperature; creare nuovi mondi, nuove realtà,
nuove atmosfere;
concentrare lo sguardo sui dettagli e sulle sfumature; rivelare
il lato sospeso ed
eterno dell’esistenza; proporre visioni oniriche ed estensioni
cromatiche; vedere oltre
il percepibile, cogliere l’immateriale.
In alcuni casi si arriva al quasi totale annullamento dell’immagine
fotografata; in
altri, all’opposto, a una sua costruzione complessa ed elaborata
per mezzo di un
lento procedimento di accumulazione, come fosse una composizione
pittorica o una
scena teatrale. Una fotografia che va “oltre il visibile” suscitando
suggestioni ed
emozioni nuove e coinvolgenti.
Le opere di Nunzio Battaglia, Francesco Corbetta, Luigi Erba e Roberto
Toya
presentano una riformulazione dei connotati topografici dei luoghi
fotografati,
annullando riferimenti spazio-temporali e restituendo sensazioni
di vibrante attesa,
atmosfere di magica sospensione.
Luca Maria Castelli e Giuseppe Mastromatteo concentrano il loro
lavoro sul corpo,
con chiari riferimenti al mondo della moda e della comunicazione.
Mentre Castelli
coglie l’attimo in cui il soggetto, una figura femminile,
compie un’elevazione del
proprio corpo, in un “volo” che viene congelato proprio
nell’attimo culminante,
Mastromatteo realizza sofisticati fotoritocchi attraverso i quali
riesce a creare
immagini dal forte impatto, perfettamente in linea con la metodologia
comunicativa
contemporanea.
Antonella Natali compie una procedura di scomposizione formale dell’elemento
naturale ottenendo risultati di pura astrazione nella quale gli
accesi cromatismi si
fondono ad emanazioni luminose, come riflessi di un mondo che non
scaturisce da
impressioni esteriori ma trova nel profondo dell’animo la
propria genesi.
Ernesto Romano fonde l’elemento umano a quello naturale utilizzando
radiografie del
proprio corpo. Il contrasto tra la monocromia della lastra e la
cromia dei fiori viene
accentuato dalla freddezza del referto medico che fa da sfondo alla
delicata immagine
floreale, diventata il soggetto principale dell’opera.
Riferimenti letterari, storici, epici, musicali sono il nutrimento
creativo di Olimpia
Soheve. L’artista realizza raffinate fotografie dal gusto
pittorico, caratterizzate
dalla stratificazione di immagini in dissolvenza, graffi, macchie
e scritte, dominate
prevalentemente da colori ambrati che conferiscono al lavoro una
temporalità indefinita,
sospesa tra presente e passato.
Nicola Vinci compone dei veri e propri quadri viventi. La scelta
dei luoghi, la
disposizione dei soggetti, lo scatto e il successivo intervento
in post-produzione formano
immagini di forte suggestione, attraverso le quali l’artista
esprime profonde riflessioni
sull’uomo, la sua esistenza e il suo infinito anèlito
verso la ricerca della Verità.
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