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Milano - PhotoShow - FieraMilanoCity

27 mar.

30 lmar.

2009

 
 

 

A cura di: Alessandro Trabucco
Progetto di: Massimo Cremagnani e Roberto Berné
Fotografie:

Nunzio Battaglia
Luca Maria Castelli
Francesco Corbetta
Luigi Erba
Giuseppe Mastromatteo
Antonella Natali
Ernesto Romano
Olimpia Soheve
Roberto Toya
Nicola Vinci

In collaborazione con:
Arscolor e Epson
Sede: PhotoShow, FieraMilanoCity, Pad. 3 stand E48, ingresso Porta Colleoni
inaugurazione venerdì 27 marzo ore 16
 

 

 

 

 

 


L'avvento dell’era digitale ha determinato negli ultimi anni un interessante dibattito critico, orientato verso una necessaria ridefinizione del concetto di riproducibilità meccanica e oggettiva della realtà da parte del mezzo fotografico, stimolando gli studiosi più attenti ad un rinnovamento del proprio approccio interpretativo. Il digitale ha realmente aperto nuove frontiere creative? Ha svincolato il linguaggio fotografico dalla referenzialità del dato reale?
Le sperimentazioni effettuate ai primi del Novecento da grandi artisti come Man Ray, Christian Schad o Lázló Moholy-Nagy ci fanno pensare che l’affrancamento della fotografia dalla fredda documentazione oggettiva risalga già a ben un secolo fa. È proprio questo approccio “artistico” (Man Ray, Schad e Moholy-Nagy non sono ricordati dalla storia dell’arte come “fotografi” tout court, ma come “artisti”) ad aver aperto le porte alla metamorfosi della fotografia: da medium di riproducibilità meccanica della realtà ad autonomo linguaggio creativo.
Ciò che nel 1859 Baudelaire imputava alla fotografia quale lacuna incolmabile rispetto alla più tradizionale pratica pittorica, e cioè “un’estrema facilità produttiva, tale da non richiedere quasi alcun intervento creativo da parte dell’autore, e poi ancora una resa troppo speculare e troppo oggettiva della realtà” (cfr. Claudio Marra, L’immagine infedele), viene smentita già dalle Avanguardie Storiche con una creatività rinnovata, ampiamente dimostrata anche dalle realizzazioni concettuali degli anni Settanta. La fotografia diviene linguaggio espressivo a sé, svincolato dalla “dittatura del reale”, in grado di riflettere su se stessa e sulle proprie dinamiche creative interne.
Il termine “noema”, parola greca che significa “pensiero” o “concetto” opposto a “ sensazione”, “dato sensibile” (àisthëma) diviene, nel contesto di questa esposizione, il principale elemento di una “fenomenologia dell’invisibile”. Ciò che la mente coglie e riesce ad elaborare dall’esterno, diventa immagine interiorizzata, visualizzata e concretizzata con un gesto che trascende la “forma percepita” in una emanazione del pensiero. Esattamente Arte.
Come è spiegato dalla filosofia aristotelica, nella quale “il noema” si origina dalla elaborazione ad opera della phantasìa, l’immaginazione, di dati sensibili occasionalmente colti, contingenti, che danno luogo alla fine a immagini mentali che invece non mutano (phantàsmata).
Gli artisti invitati presentano lavori che portano al limite delle sue potenzialità la tecnica analogica (quindi vincolata, almeno nel momento della ripresa, al dato fenomenico) presentando esiti paragonabili alla tecnologia digitale, mantenendosi saldamente al confine tra le due metodologie.
È una sorta di “ibridazione” delle tecniche, una commistione di linguaggi simili ma differenti, che portano a risultati inediti.
PhotoNoema significa quindi “fotografia del pensiero”. La nuova realtà che la fotografia indaga non è solo quella fenomenica. L’artista non rivolge l’obiettivo soltanto verso la realtà esterna, ma se lo punta contro, dentro di sé. Scatta immagini che rispecchiano uno stato mentale, una vibrazione emotiva, una condizione psicologica.

 


In questo modo egli crea una realtà parallela ed interiorizzata, invisibile allo sguardo ma intimamente e fortemente vissuta. La fotografia può registrare emanazioni e temperature; creare nuovi mondi, nuove realtà, nuove atmosfere; concentrare lo sguardo sui dettagli e sulle sfumature; rivelare il lato sospeso ed eterno dell’esistenza; proporre visioni oniriche ed estensioni cromatiche; vedere oltre il percepibile, cogliere l’immateriale.
In alcuni casi si arriva al quasi totale annullamento dell’immagine fotografata; in altri, all’opposto, a una sua costruzione complessa ed elaborata per mezzo di un lento procedimento di accumulazione, come fosse una composizione pittorica o una scena teatrale. Una fotografia che va “oltre il visibile” suscitando suggestioni ed emozioni nuove e coinvolgenti.
Le opere di Nunzio Battaglia, Francesco Corbetta, Luigi Erba e Roberto Toya presentano una riformulazione dei connotati topografici dei luoghi fotografati, annullando riferimenti spazio-temporali e restituendo sensazioni di vibrante attesa, atmosfere di magica sospensione.
Luca Maria Castelli e Giuseppe Mastromatteo concentrano il loro lavoro sul corpo, con chiari riferimenti al mondo della moda e della comunicazione. Mentre Castelli coglie l’attimo in cui il soggetto, una figura femminile, compie un’elevazione del proprio corpo, in un “volo” che viene congelato proprio nell’attimo culminante, Mastromatteo realizza sofisticati fotoritocchi attraverso i quali riesce a creare immagini dal forte impatto, perfettamente in linea con la metodologia comunicativa contemporanea.
Antonella Natali compie una procedura di scomposizione formale dell’elemento naturale ottenendo risultati di pura astrazione nella quale gli accesi cromatismi si fondono ad emanazioni luminose, come riflessi di un mondo che non scaturisce da impressioni esteriori ma trova nel profondo dell’animo la propria genesi.
Ernesto Romano fonde l’elemento umano a quello naturale utilizzando radiografie del proprio corpo. Il contrasto tra la monocromia della lastra e la cromia dei fiori viene accentuato dalla freddezza del referto medico che fa da sfondo alla delicata immagine floreale, diventata il soggetto principale dell’opera.
Riferimenti letterari, storici, epici, musicali sono il nutrimento creativo di Olimpia Soheve. L’artista realizza raffinate fotografie dal gusto pittorico, caratterizzate dalla stratificazione di immagini in dissolvenza, graffi, macchie e scritte, dominate prevalentemente da colori ambrati che conferiscono al lavoro una temporalità indefinita, sospesa tra presente e passato.
Nicola Vinci compone dei veri e propri quadri viventi. La scelta dei luoghi, la disposizione dei soggetti, lo scatto e il successivo intervento in post-produzione formano immagini di forte suggestione, attraverso le quali l’artista esprime profonde riflessioni sull’uomo, la sua esistenza e il suo infinito anèlito verso la ricerca della Verità.


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