[ IN-TRANSITIVA_01 ]
Folder III

Cultura, natura, fotografia:
alcuni paesaggi della sedimentazione.

Il paesaggio artificiale è il luogo dove la presenza dell’uomo si fa scrittura operante, attraverso un sistematico lavoro di antropizzazione dell’ambiente naturale.
Per effetto di tale trasformazione il paesaggio si offre così allo sguardo come denso palinsesto, emblematico deposito di memorie stratificate, inconsapevole archeologia di tracce, icasticamente allusive alla forze assenti che l’hanno progressivamente conformato nel tempo. Il paesaggio, pertanto, si fa testo capace di trasmettere, attraverso cancellature, correzioni ed integrazioni successive, la storia del suo farsi perpetuo, che risulta ad un tempo individuale nella sua irripetibilità di esecuzione e collettiva nella necessaria condivisibilità di principi e regole adottate nel disegno del suolo. La superficie della terra, nelle sue leggere increspature così come nei suoi più energici scavi, si offre pertanto quale materiale a cui attinge ogni attenta antropologia per ritrovare le ragioni dell’evoluzione di un linguaggio della trasformazione.
Rispetto a tale condizione, il paesaggio naturale, nella sua connotante morfologia, ovvero nella sua evidenza superficiale, e nelle sua profonda stratificazione verticale, egualmente rivelata da ricorrenti fenomeni tettonici ed erosivi, si pone come simmetrica metafora di una serrata dialettica tra la materia viva, ovvero il dato naturale di cui il paesaggio vergine è costituito, e l’azione, talvolta ciclica e prolungata, talaltra improvvisa e drammatica nel suo manifestarsi, dei grandi eventi atmosferici- venti, esondazioni, mareggiate, alluvioni, terremoti etc.- che ne hanno definito irreversibilmente l’apparenza. La plasticità del paesaggio naturale, nelle porosità più minute così come nelle sue più profonde incisioni, si offre analogamente quale materiale prezioso a cui si rivolge la geologia per riscoprire il linguaggio dell’evoluzione della terra.
In tal senso, azione dell’uomo e della natura sono assimilabili in quanto modalità trasformative/espressive che agiscono sul supporto, mai neutrale, del paesaggio naturale, traducendolo in matrice ideale il cui calco, sovvertendo qualsiasi attesa di buona pratica artistica, è costituito da quelle stesse azioni/operazioni che l’hanno generato.
Il paesaggio si traduce pertanto nel grado zero della scrittura -naturale e/o artificiale- che l’ha conformato, utilizzando il vuoto, traccia di un’ assenza, e non il pieno, come sublime materiale.
Nell’opera di Nunzio Battaglia sembrano coesistere entrambe le prospettive, o, se preferiamo, i ruoli, sia nella scelta dei temi, che nelle modalità attraverso le quali il suo sguardo si posa sulle cose per indagarle.
Se pertanto il paesaggio, indistintamente naturale e/o artificiale, si offre all’osservazione attenta come allegoria della sedimentazione di forze/azioni- che sono anche pensieri/progetti- che ne hanno plasmato la forma nel tempo, il processo attraverso il quale gli uni e le altre sono registrati nel corpo vivo della materia terrena trova una efficace declinazione attraverso la stessa tékhne fotografica, immediatamente sublimata in póiesis.
Così la pellicola, trasfigurata attraverso l’artificio artistico, acquista il denso spessore della materia/paesaggio naturale, capace di registrare le impressioni/tracce/impronte che la luce/azione esercita sulla sua superficie con intensità/pressione variabile a seconda della qualità dell’oggetto riflettente e del tempo di esposizione al perdurare dell’azione stessa, restituendoci in chiave espressiva il senso più puro del processo di conformazione del referente. I diversi modi attraverso i quali si rivela lo sguardo di Battaglia alludono pertanto metaforicamente a quello stesso tempo della sedimentazione impresso nei paesaggi della memoria a cui ci si riferiva in apertura.
Ognuno dei percorsi delineati può essere pertanto assunto come interrogazione sulle possibilità del linguaggio fotografico, inteso come calco/traduzione di quello più direttamente utilizzato nella costruzione del paesaggio. Così la serie dei campi/sguardi fissi sui luoghi di montagna restituisce una osservazione di carattere contemplativo, ovvero allude alla pura disponibilità del supporto fotografico/naturale a registrare tutte le sollecitazioni esercitate da una immota esposizione all’azione continua ed implacabile della luce/fenomeno naturale che tutto permea di sé, amplificandone il carattere espressivo.
Allo stesso modo la serie dedicata ai paesaggi della costa irlandese sembra porre sullo stesso livello la prolungata esposizione all’azione erosiva esercitata dai flutti marini che si infrangono sull’incerto profilo della linea di terra- che ne costituisce di fatto la traccia complementare- plasmandone il carattere formale, e l’esposizione in quasi-sequenza ad una luce quasi-intermittente, filtrata dalle nubi in movimento che attraversano il cielo, sublimata dallo svolgersi dell’energia coloristica dell’arcobaleno ed evocata dal lento tramontare del sole nel simmetrico dispiegare un’energia/azione protratta nel tempo.
Similmente i collages attraverso i quali vengono giustapposte in progressione immagini del paesaggio dolomitico rifuggono l’obiettività dello sguardo, distaccato rispetto al proprio referente, ed introducono dinamicamente la presenza dell’osservatore nella sua raffigurazione.
L’esito dell’operazione guidata dallo sguardo/azione si traduce pertanto nella sua traccia/montaggio, ovvero nella memoria di un fare, prolungata nel tempo della percezione /trasformazione, in cui soggetto ed oggetto interagiscono dialetticamente, nella fenomenologia della visione e similmente nel sistema discreto, quasi-lineare, della restituzione fotografica.
Così il piacere offerto dalla percezione di paesaggi incontaminati si accompagna ad un intensa riflessione sul linguaggio della fotografia, in cui artificio, natura e mondo della rappresentazione coesistono all’interno di un unico ideale paesaggio della sedimentazione.

Nicola Marzot

 

 

Alpe di Siusi, Alto Adige, 2001

 

 

 

 

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