[ IN-TRANSITIVA_01 ]
Folder II

Nella fotografia di Nunzio Battaglia è possibile trovare diverse tensioni, differenti storie che si intrecciano. Le sue fotografie, prese singolarmente, in una ricerca su luoghi e spazi che da una decina d'anni indica una precisa autorialità, mostrano infatti una sostanziale fede nella -veduta-, nella singola immagine prospettica capace di descrivere e narrare un paesaggio complesso all'esterno e, parallelamente, il paesaggio della cultura di chi quel paesaggio intende abitare e narrare.
È una modalità che ha una storia abbastanza definita, quella della nuova fotografia di paesaggio che in Italia si condensa attorno al lavoro di Luigi Ghirri dagli anni Ottanta, a quello di Chiaramonte, Barbieri, Cresci, Basilico, Jodice, Castella, Ventura ed altri; storia parallela a quella contemporanea degli statunitensi Meyerowitz, Egglestone, Shore. Le singole fotografie di Battaglia hanno una stesura che rimanda proprio a quella storia: il medio formato di ripresa e il colore luminosamente acquerellato, il dettaglio accanito che a tratti impone quasi un eccesso di realtà e a tratti si ritira nelle rese abbagliate della luce.
La sua fotografia, però, intesa come scrittura e pratica di una produzione che si disloca nel tempo, procede per serie, sequenze intrecciate profondamente, sistemi di relazione tra le immagini che prendono i tratti di una babelica biblioteca il cui orientamento è oltretutto mutevole, viene continuamente rigiocato nel corso degli anni. Così delle belle inquadrature troviamo spesso giustificazione in un -fuori campo-, fatto di altre fotografie o di testi letterari, o di mitologie suggerite. A volte il gioco sembra quello di un desiderio analitico al cui fondo si trova l'improponibilità di ogni sintesi unitaria, una volonta di strutturare il proprio pensiero a ridosso di un luogo che va a parare nella distruzione della presupposta vocazione cartesiana della fotografia. Anche questo ha una sua storia; ricordiamo una delle verifiche di Mulas in cui nel continuo ingrandimento, dal blow up di una veduta urbana troviamo solo l'insegna di un fotografo (nella fotografia non troviamo verità che non sia nel suo linguaggio) oppure gli stravolti réportages di Duane Michals, gli assemblaggi di David Hockney, in apparenza il referente più prossimo alle composizioni In-transitive di Nunzio Battaglia.
Possiamo allora leggere queste composizioni di fotografie, o scomposizioni di vedute (o, come detto da Vittorio Savi, possibili identificazioni e dis-identificazioni per il lavoro di Battaglia sulle architetture) alla luce della pop art inglese di oltre trent'anni fa, e in particolare del suo versante più attento alle implicazioni linguistiche, concettuali o, per restare in una zona a noi più prossima, al lavoro fondante di Luigi Ghirri negli anni Settanta del secolo scorso, e di questo troviamo tante tracce, tanti sottili omaggi. Ovviamente i luoghi, l'Alpe di Siusi oggetto di una celebre veduta ghirriana che qui viene raccontata come in controcampo, condensando sul luogo una serie di quadri analitici che ne dilatano i tempi di percezione, traducono in gioco combinatorio uno sguardo fortemente affezionato; poi gli orizzonti, le sequenze che articolano una bellezzza del paesaggio tra cielo e luce in mondi possibili (a nessuno dei quali si vorrebbe rinunciare a favore di una bella veduta) dalle sottili variazioni di tono in una griglia ortogonale che ricorda la serie di Infinito, sempre di Ghirri.
Ma le seriazioni e le panoramiche esplose di Battaglia dispiegano sequenze radicalmente diverse da quelle della linea concettuale. Non sono infatti narrative, in termini cinematografici (più che alle piccole storie sul linguaggio di Dibbets o Michals sembrano vicine agli insistiti piani-sequenza di Starub-Huillet) e nemmeno ieraticamente esplicative come in John Pfahl o Silvio Wolf, inseguono invece una dilatazione della ricerca sulla bellezza, individuata non tanto nell'unicità rivelata del momento e del luogo (che insiste, comunque, in ogni punto di queste storie) quanto nella felice complessità del vedere e del far vedere.
Si tratta comunque di un fare vedere fondato su un certo straniamento, non tanto dell'oggetto, del paesaggio -per il quale vi è anzi un quasi sacrale rispetto- quanto delle abituali condizioni di percezione della sua scrittura, anche all'interno della stessa operazione. Non solo viene evitata la fotografia come quadro da parete ma anche il montaggio esplode in direzioni diverse, volta per volta, o esce dalla bidimensionalità come in opere costruttiviste, o prende l'aspetto della cassa retroilluminata. Forse dietro a questo continuo mutare delle forme della visione (sempre comunque fedele a un'idea di paesaggio) non vi è tanto un accumulo delle possibili scritture, delle possibili soluzioni descrittive ed espositive, quanto uno sviare da ogni sedimentazione delle abitudini, un lavoro -a togliere- che dovrebbe lasciare, in fondo, una ultima curiosità sulla bellezza del mondo.

Paolo Barbaro

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LUCI CELTICHE
Irlanda. Arcobaleni simili all’arco di un dio, lasciato cadere per trascuratezza al confine tra la terra e il mare; promontori di sabbia, rocce ed erbe, infestati dai fantasmi; montagne coronate da tumuli dove vaste nubi celano la presenza della Signora Bianca, la regina Medb che elargisce l’acqua; alberi tra le cui fronde le voci si dissolvono nel crepuscolo; e poi paludi di torba, strade, pendii, dirupi, scogliere popolate di folletti, di donne senza testa, uomini con la corazza, lepri-ombra, cani da caccia con la lingua di fuoco, foche fischianti…
“Poggia l’orecchio alla collina. / Non senti il flebile ticchettio, / Gli indaffarati colpi del martello di un elfo, / La stridula voce del leprecano che canta / Tutto contento mentre lavora? “ recita un’antica ballata irlandese.
Cosa raccontano le nuvole basse e iridescenti che corrono veloci sulle Cliffs of Moher? E le colline ricoperte d’un erba verde, rasata come il tappeto d’un tavolo da gioco? E i sambuchi, i susini selvatici, i faggi, gli olmi, i cespugli di fucsie che scendono fino al mare? “Per il contadino saggio le colline verdi e i boschi intorno a lui son pieni di un mistero che non svanisce mai” racconta il poeta W. B. Yeats.
“Poggia l’orecchio alla collina…” suggeriva la ballata. Ma l’occhio, invece, dove e come deve guardare per non rimanere intrappolato solo nell’incanto superficiale del bel panorama?
Facile infatti sarebbe lasciarsi sedurre dalle scenografiche scogliere dell’Irlanda occidentale, dove nubi di gabbiani vorticano in danze frenetiche, o dai prati smeraldini che ricoprono morbide colline. Eppure la tentazione del pittoresco è proprio quella che va evitata, se non si vuole ridurre la natura a piatta immagine di consumo.
“La passione celtica per la Natura sorge dal senso del suo mistero piuttosto che dalla sua bellezza” ribadisce Yeats con tenacia.
Ma noi del “Bel Paese” spesso ignoriamo tale mistero: nei tramonti vediamo solo luci rosate e non immaginiamo schiere di morti incamminarsi dietro il sole.
E la fotografia poi, figlia del secolo della tecnica e della razionalità, come può cogliere ciò che va oltre il visibile, ciò che non è solo spenta e seducente bellezza?
Forse può, come ha fatto Nunzio Battaglia, iniziare col rinunciare alla “bella veduta”, alle riprese con la luce “giusta”, alle inquadrature che evidenziano scenografie e meraviglie naturali a un punto tale da trasformarle in fondali di uno spot pubblicitario.
Nonostante Battaglia fotografi anche le scogliere più celebri dell’isola
– come le Cliffs of Moher – ci si accorge che, anziché puntare l’obiettivo verso il bello, egli preferisce fare un piccolo passo indietro: sembra ritrarsi verso una visione più instabile, delicata, che rivela come per lui la bellezza del paesaggio non consista nella veduta mozzafiato cara ai depliant turistici, ma nella misteriosa Presenza della Natura.
Una Presenza potente e sommessa, che emerge grazie a uno sguardo capace di ascoltarne i fremiti, di seguire le nuvole lanose accarezzate dal vento, attendere la discesa del sole, l’affievolirsi di un arcobaleno in lontananza.
Costruite in sequenze che s’intrecciano e si ramificano, le sue immagini rivelano il farsi dell’esperienza, dilatano i tempi della percezione, ma soprattutto mimano e assorbono il ritmo latente e mutevole del paesaggio irlandese.
Lontano da tentazioni concettuali, Nunzio Battaglia moltiplica le immagini non per destrutturare le certezze della visione, ma per sfuggire alle facili illusioni ottiche del troppo bello, e far emergere invece un’altra bellezza, fatta di forza e incantamento, aura e mistero.
“Le parole sono sempre ostaggi; appena concesse al mondo profano, subito questo ne fa reti, gabbie. Come preservare il significato dalla fatale sorte d’ogni significante?” si chiede Elémire Zolla, che suggerisce: “Consiglio di cambiare costantemente la parola. (…) In guardia dall’ipnosi dei termini, delle formule. Variamoli viceversa, senza indugio. A vortice.
I canti sciamanici sono rosari di sinonimi, la loro moltiplicazione dei simboli è vertiginosa.”
Ecco, forse le immagini di Nunzio Battaglia – come le parole cangianti suggerite da Zolla – si frantumano e si moltiplicano, simili ai sinonimi degli sciamani. In questo modo sfuggono alla gabbia delle definizioni univoche. E delicatamente, intensamente si sporgono al di là del dominio delle mere parvenze, delle belle forme.

Gigliola Foschi

 

 

Ring of Kerry, Irlanda, 2001

 

 

 

 

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