di Paolo Barbaro

Nella fotografia di Nunzio Battaglia è possibile trovare diverse tensioni, differenti storie che si intrecciano. Le sue fotografie, prese singolarmente, in una ricerca su luoghi e spazi che da una decina d'anni indica una precisa autorialità, mostrano infatti una sostanziale fede nella -veduta-, nella singola immagine prospettica capace di descrivere e narrare un paesaggio complesso all'esterno e, parallelamente, il paesaggio della cultura di chi quel paesaggio intende abitare e narrare.
È una modalità che ha una storia abbastanza definita, quella della nuova fotografia di paesaggio che in Italia si condensa attorno al lavoro di Luigi Ghirri dagli anni Ottanta, a quello di Chiaramonte, Barbieri, Cresci, Basilico, Jodice, Castella, Ventura ed altri; storia parallela a quella contemporanea degli statunitensi Meyerowitz, Egglestone, Shore. Le singole fotografie di Battaglia hanno una stesura che rimanda proprio a quella storia: il medio formato di ripresa e il colore luminosamente acquerellato, il dettaglio accanito che a tratti impone quasi un eccesso di realtà e a tratti si ritira nelle rese abbagliate della luce.
La sua fotografia, però, intesa come scrittura e pratica di una produzione che si disloca nel tempo, procede per serie, sequenze intrecciate profondamente, sistemi di relazione tra le immagini che prendono i tratti di una babelica biblioteca il cui orientamento è oltretutto mutevole, viene continuamente rigiocato nel corso degli anni. Così delle belle inquadrature troviamo spesso giustificazione in un -fuori campo-, fatto di altre fotografie o di testi letterari, o di mitologie suggerite. A volte il gioco sembra quello di un desiderio analitico al cui fondo si trova l'improponibilità di ogni sintesi unitaria, una volonta di strutturare il proprio pensiero a ridosso di un luogo che va a parare nella distruzione della presupposta vocazione cartesiana della fotografia. Anche questo ha una sua storia; ricordiamo una delle verifiche di Mulas in cui nel continuo ingrandimento, dal blow up di una veduta urbana troviamo solo l'insegna di un fotografo (nella fotografia non troviamo verità che non sia nel suo linguaggio) oppure gli stravolti réportages di Duane Michals, gli assemblaggi di David Hockney, in apparenza il referente più prossimo alle composizioni In-transitive di Nunzio Battaglia.
Possiamo allora leggere queste composizioni di fotografie, o scomposizioni di vedute (o, come detto da Vittorio Savi, possibili identificazioni e dis-identificazioni per il lavoro di Battaglia sulle architetture) alla luce della pop art inglese di oltre trent'anni fa, e in particolare del suo versante più attento alle implicazioni linguistiche, concettuali o, per restare in una zona a noi più prossima, al lavoro fondante di Luigi Ghirri negli anni Settanta del secolo scorso, e di questo troviamo tante tracce, tanti sottili omaggi. Ovviamente i luoghi, l'Alpe di Siusi oggetto di una celebre veduta ghirriana che qui viene raccontata come in controcampo, condensando sul luogo una serie di quadri analitici che ne dilatano i tempi di percezione, traducono in gioco combinatorio uno sguardo fortemente affezionato; poi gli orizzonti, le sequenze che articolano una bellezzza del paesaggio tra cielo e luce in mondi possibili (a nessuno dei quali si vorrebbe rinunciare a favore di una bella veduta) dalle sottili variazioni di tono in una griglia ortogonale che ricorda la serie di Infinito, sempre di Ghirri.
Ma le seriazioni e le panoramiche esplose di Battaglia dispiegano sequenze radicalmente diverse da quelle della linea concettuale. Non sono infatti narrative, in termini cinematografici (più che alle piccole storie sul linguaggio di Dibbets o Michals sembrano vicine agli insistiti piani-sequenza di Starub-Huillet) e nemmeno ieraticamente esplicative come in John Pfahl o Silvio Wolf, inseguono invece una dilatazione della ricerca sulla bellezza, individuata non tanto nell'unicità rivelata del momento e del luogo (che insiste, comunque, in ogni punto di queste storie) quanto nella felice complessità del vedere e del far vedere.
Si tratta comunque di un fare vedere fondato su un certo straniamento, non tanto dell'oggetto, del paesaggio -per il quale vi è anzi un quasi sacrale rispetto- quanto delle abituali condizioni di percezione della sua scrittura, anche all'interno della stessa operazione. Non solo viene evitata la fotografia come quadro da parete ma anche il montaggio esplode in direzioni diverse, volta per volta, o esce dalla bidimensionalità come in opere costruttiviste, o prende l'aspetto della cassa retroilluminata. Forse dietro a questo continuo mutare delle forme della visione (sempre comunque fedele a un'idea di paesaggio) non vi è tanto un accumulo delle possibili scritture, delle possibili soluzioni descrittive ed espositive, quanto uno sviare da ogni sedimentazione delle abitudini, un lavoro -a togliere- che dovrebbe lasciare, in fondo, una ultima curiosità sulla bellezza del mondo..

Paolo Barbaro,
note alla presentazione della mostra
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