Non si può guardare ad un paesaggio
con la distaccata serenità con cui si osserva un oggetto perché
nel paesaggio si ritrova la nostra storia o addirittura, come diceva
con felice intuizione il filosofo tedesco Friedrich Schelling, la
nostra coscienza "pietrificata".
Il mondo non è un fondale inanimato davanti a cui si recita
la vita degli uomini ma uno specchio in cui si riflettono il sentimento
e la paura, l'angoscia oscura e la felicità saettante di un'illuminazione
improvvisa. Parlando della sua terra e parlandone con il mezzo fotografico,
che più gli è consono, Nunzio Battaglia scava proprio
alla ricerca di quella coscienza sepolta sotto la sabbia, sfilacciata
nelle nuvole, proiettata verso un orizzonte infinito, imprigionata
nelle pietre di tufo butterato dal vento su cui gli uomini hanno saputo,
un giorno non molto lontano, dipingere un cielo bello come sanno esserlo
i sogni.
Che sia la Sicilia la terra di cui parliamo non è però
solo il dato autobiografico dell'autore perché tutti noi con
quei paesaggi carichi di simboli antichissimi continuiamo a fare i
conti: la nostra cultura affonda le radici nel mito, si perde nello
sguardo alterno di Dionisio e di Apollo, riacquista un senso quando
si confronta con creature mostruose (i Ciclopi e le Sirene, l'uomo-capro
che danza e il dio-toro che uccide) per scoprirle come proiezione
del pensiero di quegli stessi uomini che se ne immaginavano vittime.
Non sono i templi o le antiche rovine l'orizzonte ideale della visione
di Nunzio Battaglia ma la linea netta proiettata verso l'infinito
dove si confondono gli elementi che da vicino appaiono separati: la
terra, il cielo, il mare.
Il suo sguardo sa cogliere l'astratto attraverso esigui frammenti
di realtà che colpiscono i sensi come l'odore del ficodindia,
il suono ossessivo delle cicale sotto il lampeggiare del sole, quel
qualcosa d'aspro del mare che ti senti addosso come una rugiada salmastra.
La capacità di astrarre, lontanissima dal vedutismo di maniera
in cui sempre più spesso ci si imbatte e che antepone il nudo
paesaggio alla capacità di interpretarlo, aiuta Nunzio a cogliere
meglio la realtà, a farsi sedurre dai messaggi che disegnano
le nuvole, a giocare nel teatro definito da muri diroccati e quinte
rosse di fari metallici, a fermarsi davanti alle soglie più
disparate: il segno netto fra ombra e sole, una sbarra oltre la quale
un pontile appare ancor più lontano, gradini davanti alle porte,
interni di case intuiti da dietro la leggera protezione di una tenda
di stoffa. Quando poi nelle case l'obiettivo riesce ad entrare, sa
ancora fermarsi sorpreso di fronte al veliero posato su un frigorifero
aperto come volesse raccontare una storia di simboli strani, di miti
sconosciuti dal significato impenetrabile. Il mondo dominato dalla
Necessità - l'Ananke di cui gli antichi greci non avevano immaginato
l'aspetto né previsto templi - ed è questa a lasciare
messaggi intensi come misteri: sulla spiaggia abbandona una piuma,
un osso di seppia, una sequenza di vertebre pulite dal mare. Noi le
osserviamo, passeggiamo sulla sabbia e col piede scostiamo un sasso
o rovesciamo una conchiglia.
Poi solleviamo lo sguardo e lo puntiamo verso l'orizzonte stringendo
forte gli occhi fino a sentire un po' di dolore ma anche un profumo
intenso fatto di pomodori che seccano al sole, valve di cozze che
si schiudono impudiche, alghe che vengono a morire stremate sul bagnasciuga;
un insieme sensuale e dolente come sono sempre i ricordi immersi in
quello strano ronzio che fa il sole quando batte impietoso sui nostri
pensieri.
Roberto Mutti,
in Immaginanti,
Centro Stampa Agip, San Donato Milanese 1998
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