Mi colpisce sempre il ritrovare, in
qualunque parte del mondo, fiumi crescenti di turisti, assillati nel
consumare informazioni e date, dei luoghi eletti a meta della propria
vacanza. E ricordo ancora di quel padre che, vicino ad uno scavo in
una delle pił belle piazze d'Italia, si trovò ad improvvisare,
per la propria famiglia, una storia di resti e reperti che, a suo
parere, affioravano copiosi tra ciottoli e sabbia.
In realtà, si trattava di uno scavo dell'ente acquedotto.
E che dire delle diverse disposizioni adottate dalle Soprintendenze
del mondo nel gestire l'atto del fotografare? Si passa infatti da
quelle restrittive italiane -ricche di divieti e di anticamere-, a
quelle greche, dove l'unico divieto, proposto intorno agli anni ottanta,
era quello di non poter posare davanti al monumento; e via via verso
quelle egiziane (secondo le quali, puoi fotografare praticamente tutto
ma, pagando ogni volta e in modo consistente), a quello messicano
dove, le macchine fotografiche paganti, vengono rese ben evidenti
da un indistruttibile adesivo.
Ma cosa accomuna questi signori bisognosi di raccattare storie e appartenenze,
di documentare, con trionfi e scalpi i luoghi e la storia? Sembra
che, un bisogno comune, in parte vero in parte indotto, ci induca
a sapere, cosa ne è stato di tutti gli Altri nel corso del
tempo.
Sapere, attraverso una collezione di piccoli indizi, come collocare
-nella nostra coscienza- questo breve passaggio edificante della nostra
vita.
I Musei, e tutte le infinite storie in essi custodite, diventano allora
quel luogo-grimaldello per comprendere; quel luogo al quale destinare,
di tanto in tanto, pochi istanti sottratti alla frenesia di un esserci
-in ogni caso-. Le storie che seguono sono due diverse, visive-narrazioni,
due intrecci vissuti con la stesa affezione per l'occhio, così
come per l'architettura.
"COUP D'OEIL"
Il Museo in CD, il Museo in Iternet.
Stai cercando un Museo? Chiama il...: è il nuovo servizio telefonico
per sapere quali sono i Musei vicini al telefono pubblico.
Oppure cambiando gruppo azionario, puoi trasformare il tuo telefonino
in una cornetta della verità che, immediatamente captato il
monumento vicino al quale ti muovi, racconta di date, autori e strane
storie.
Monumento telematico alla cosmica -urgenza- e alla sindrome del -horror
vacui-.
Tuttavia e quasi parallelamente, è come se Claude-Nicolas Ledoux,
in modo a lui inconsapevole, potesse aiutarci, con un suo disegno
visionario "Colpo d'occhio sul teatro di BesanÁon"
a coniare un più pertinente punto di fuga, dal quale, attraverso
eterogenee discipline come -architettura-fotografia-teatro- postulare
articolate e affini connessioni.
Aiutarci a comprendere a partire dal XVIII sec., futuri fenomeni artistici
connessi dalla rappresentazione; osservare in miglior modo le dinamiche
che producono gli spazi sottoposti alla gestione del bene d'Arte,
detti meglio Musei, osservarne gli slittamenti sostanziali che generano
nell'atto della fruizione.
Ho riportato (proprio per allargare l'orizzonte del tema), due lavori,"
Museum Photographs" di Thomas Struth classe 1954 artista, e "Small
World" di Martin Parr classe 1952 fotografo Magnum.
Il primo, lavoro edito nel 1993 dalla editrice Schirmer/Mosel in occasione
della mostra presso la Kunsthalle di Hamburg; il secondo, edito dalla
editrice Peliti nel 1995 in occasione della mostra nell'ambito della
VI Biennale Internazionale di Torino.
Due lavori (quelli di Struth sono riprese del 1989, quelle di Parr
del 1994) che, in maniera diversa, contengono una interessante matrice
comune: fare interagire, all'interno del riquadro-immagine, persone
assorte nell'atto del vedere. Quadri, nel primo caso, esposti all'interno
di famosi musei del mondo; diversi monumenti del pianeta nell'altro
caso.
Due viaggi quindi, attraverso l'occhio, di artisti diversi, che, mettono
a punto, come materia del proprio fare arte, l'interconnessione visiva
dell'uomo con il Bene Arte. Il modificarsi del contesto, dove lo sguardo
conscio dell'artista capta e trasforma tutto in ready made, quindi
nuova opera .
Per dirlo con Argan "...la negazione delle tecniche come operazioni
programmate in vista di un fine ha il suo punto culminante nel ready
made di Duchamp..., ed ancora .... col ready made viene data come
avente valore una cosa a cui comunemente non se ne attribuisce alcuno...non
c'è procedimento operativo, ma un mutamento di giudizio, intenzionalmente
arbitrario..."
Nel caso dei due lavori precedenti siamo addirittura disposti in modo
diametralmente opposto perché, non si tratta di un oggetto
qualsiasi ma, addirittura di un quadro famoso o di un sito archeologico
importante e pertanto "il mutamento di giudizio", nel nostro
caso, può avvenire solo nei confronti della condizione del
"guardante", poichÈ solo lui e non il contesto svolge
un ruolo di oggetto/soggetto. Come infatti propone Hans Belting, nella
bellissima presentazione al libro di Struth, intitolandola "Catching
the Eye" l'occhio catturato, ci sono almeno due effetti dei quali
bisogna ancora tenere conto; da un lato l'oggetto guardato diventa
modificato dal flusso dello sguardo altrui, dall'altro, io nel collegarmi
all'altrui sguardo ne subisco la forza e l'impeto.
Ecco che allora ritornando al vecchio Claude-Nicolas Ledoux e al suo
lavoro, mi sembra di vedere l'intera complessità del mistero
dello sguardo e un filo rosso passa attraverso lo strutturalismo di
F. de Saussure caricandosi di opere come Las Meninas del Velasquez.
Il dedalo storico degli sguardi mi appare ora pił veritiero, poiché
più chiare le menzogne e le verità, e per essi il Museo
primo contenitore.
Nell'istante in cui questo scritto rallenta la sua corsa anticipando
la fine, rivedo l'attuale prospetto del Centre G. Pompidou, che nel
chiudere fisicamente i battenti e rimettersi in tiro per affrontare
il nuovo millennio, scambia il suo famoso prospetto higt-tech con
una sola mega immagine-prospetto.
Una collezione di facce ridenti e appagate lo rappresenta "Vous
aussi, vous Ítes notre musée".
Clamorosa e inversa trasformazione dell'atto di coprire, velare un'attesa
e un mutamento.
L'ESPERIENZA DEL MUSEO
Arrivammo, con l'alba ancora negata, su un ponte dal quale avvistiamo,
muto come belva dubbiosa, un grumo di notte concreta di guizzi taglienti.
Qualcuno rantolò in un roco sussulto.
Dormiva il pachiderma, accompagnandosi con i riflessi dell'acqua,
e posizionava le sue scaglie bigie e cangianti affondandole ora nel
nero della notte ora, alla stessa maniera, a captare ogni sorgente
di luce e farne bottino di guerra. Un viadotto proveniente dalla città
assopita, si perdeva dietro i suoi pennacchi, quasi ad affondare dentro
le sue presunte viscere, e consentendo, a fanalini di coda di rade
autovetture, di solcarne, di graffiarne le maculate fiancate.
La mattina era piovosa e grigia, ci trasportammo lungo il paseo, seguendo
il corso del Ria de Bilbao. Lentamente conquistiamo un incrocio dal
quale, la pietra d'angolo, i cantonali, gli spigoli taglienti di quella
parte di città inquadravano, come straniti, quell'intruso,
ritagliandone a forza le sagome gonfie come mongolfiere arrivate da
Marte.
Una massa di anatomiche geometrie si avviluppavano sotto la timida
pioggia, dichiarando al percorso annichilito dei nostri occhi, anse
nuove della cangiante materia.
Una bolgia multietnica di variopinti impermeabili stava allineata
e declinava lievemente verso un composito volume di vetro, dentro
al quale, come a drago di cristallo, di tanto in tanto venivano ingoiati
gruppi di venti persone. Il cenno di un uomo in divisa impresse, alla
fila allineata sotto la pioggia, una nuova allocazione, distribuendoli
sotto un dentello promosso al rango di pensilina. Una manciata di
pesetas alla cassa ti legava ad un braccialetto adesivo - moderno
biglietto d'ingresso - rendendoti Visitatore; era come ritornare nell'incubatrice
prima di avere un nome. Eri solo un ospite, per un giorno, della balena.
Da quell'istante, otto ore di appassionate visioni, di Omerico racconto
di luci e superfici. Era come entrare in un paradiso mai descritto,
come ritornare in una gravidanza, in una strana madre mai conosciuta,
come ridisegnare i gironi dell'inferno privandoli del malefico e caricandoli
del preziosismo degli abissi. Verne, Kafka, Balzac, e quanti altri
avevano forse speso un piccolo tassello. Gli ospiti si aggiravano
in quel "pozzo di san patrizio" irrorato di luce, affiorando
da improvvisi anfratti e crepe recesse delle pareti. I custodi, da
tempo creature del luogo, anche loro, sembravano turbati e poco sereni
dell'impresa da sorvegliare.
Un suono affiorante come da ogni angolo recesso trasognava ogni direzione
rendendola pura somiglianza: Salire, girare, imbroccare una rampa,
assumevano lo stesso valore di ogni balocco, di ogni gelato al pistacchio
consumato nelle notti di luna piena. Una targhetta con scritto "Earth
pull - 1998 - Robert Rauschenberg" ci trasformava in campanari
del luogo, promuovendoci autori di primordiali vagiti della terra,
levatrici di una nascita universale. Quattro corde calate nel vuoto,
quattro note in canna d'organo, descrivevano una cangiante colonna
sonora e rendevano le persone pił simili ad apparizioni che a vera
materia. Anime.
Pensando di attenuare quella spossante collaborazione - di tutti i
sensi -, decisi di varcare una branchia di luce e trasparenza, portarmi
fuori, dove altre persone continuavano a scambiare tra loro un dialogo
incessante di sguardi e indicazioni, sulla punta delle dita, individuando
preziosi dettagli sui quali far soffermare il proprio compagno di
viaggio. Intrapresi una rampa panciuta e sinuosa, di quelle leggere
ed eteree che permettono di lambire qualcosa; cosÏ mantenni,
ancora per altro tempo, un legame con l'onnipresente edificio. Decisi
di avviarmi verso quel punto di fuga lontano, quella parte in fondo
oltre il viadotto, dove convivevano e si innestavano, città
e multimateria, dove, ancora una volta, sagome umane rendevano nella
lontananza tutto simile ad un modellino.
Guadagnai la lunga gradinata a forma di cuneo per andare a toccare
con mano quella torre, quell'albero maestro dell'intero convoglio;
mi sostenni sulla vicina balaustra a guardare quella seconda Babele.
Era come se qualcuno avesse gonfiato a dismisura una di quelle torri
della nostra San Gimignano e dopo averla ingrandito fino allo scoppio
ne avesse conficcato i lunghi stinchi deformi nel suolo. Una rampa
d'acciaio aveva in essa trovato dimora come in un paguro preso in
affitto.
Da quel lontano punto di vista pensai a quello che era stato il mio
girovagare, come di polline inappagato; cercai di ricomporre ogni
corrispondenza tra esterno e interno, tra inizio e fine, tra alto
e basso, e mi accorsi di come due giganti del - costruire il visibile
- avevano dato continuità all'esperienza del creare.
Era come se un fluido avesse inondato una zona del globo avvolgendo
le cose di sempre di una bava ignota e multiverso.
Pensai di partecipare, come dalle mie parti in Sicilia a quella strana
danza della visione durante la pesca dei ricci di mare. Assistere
allo spettacolo dell'individuare le femmine cariche di saporite e
colorate uova, dai maschi, batuffoli incommestibili.
Mi balenò ancora quella strana domanda sulla piccola alga,
quella che indossano solo le femmine sopra gli aculei, forse per mimetizzarsi.
Non ho mai capito di quanto quel ricciolo di orgoglio vegetale li
esponesse ad una eroica visibilità senza risparmio o di quanto
invece li sottraesse alla chiarezza consegnandoli ad un salvifico
indistinto.
Nunzio Battaglia,
in Allestimenti e Musei, Medina, Palermo 2000
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