Indietro, sul destriero della memoria,
giù giù, fino a ritrovare, ingiallito, il ricordo più
lontano del bisogno di fare immagine per raccontare; di quando, circa
venti anni or sono, giovane studente coi cuore gonfio di speranza,
fui costretto, per colpa di una materia dal nome strano di Disegno
e Rilievo , a procurarmi e forgiare sguardi significativi verso il
"paesello" dove ero nato.
I primi vennero comprati e avevano il suono della carta e del multiracconto
al profumo dell'ammoniaca. Erano rigorosi e puntuali e altri uomini
con la complicità di spanciati uccelli d'acciaio, avevano rivelato
per sempre il mistero di un punto di vista estremo e dall'alto, surrogato
di un totale controllo su di un territorio per niente controllato.
Indagare con lo sguardo di allora la città, carpirla, identificarsi
con un'idea, un'astrazione, una metafora, saper distinguere i singoli
tasselli che la costituivano, diventava il compito primo che mi ero
assegnato.
In breve tempo mi resi conto che non bastava munirsi di una pellicola
"senziente"; pensai così di "noleggiare"
uno sguardo, quello di un professionista del luogo.
Con lui, fotografo eccelso di conviti e ritratti celebrativi, avrei
avuto miglior fortuna, carpire e ritagliare piccole verità
quadrate, diorami come acquari da tasca, sarebbe stato un "gioco
da stupidi".
Cercai, durante quei brevi spostamenti del 1978, di spiegare al "legionario
dell'occhio", quale magia doveva operarsi all'interno di quelle
promesse inquadrature.
Girovagammo per ore ed ore, passando dall'entroterra, lacerato da
una luce sulfurea e ulcerosa, alle vette più alte degli edifici;
provavamo gli infiniti punti di vista, e i più strani. Alla
fine, e quasi all'imbrunire, ci trovammo sul bordo estremo di un braccio
di sasso che spinge la terra fino a dentro il mare; una lanterna muta,
come albero di natale, combatteva il depositarsi dei continuo sussurro
della salsedine.
Continuammo per qualche lunghissimo minuto a puntare quell'arma muta,
quei congegno odioso (seppi poi essere la mitica Rolleiflex) quel
ferro cocciuto e avaro per cercare di ritagliare porzioni di "città
veritiere".
Ci accanimmo per tentare di registrare un mormorio decente, un farfugliato
dialogo, nuvolo d'ipotesi indistinte.
Il compagno a "noleggio", infastidito - penso - dal mio
incessante ruolo nella missione dello strano sforzo di comprendere,
cedette, e ad un certo punto mi offrì, con gesto quasi di sfida,
di guardare da me dentro il pozzetto dal vetro smerigliato.
Mi accorsi che le cose erano come impalate da sempre, come elefanti
da circo impuntati, quando nessun domatore è bastevole al convincimento
di una danza negata.
Nessuno di noi, e per proprio conto, era riuscito a valicare quella
fetta di palese e reale, di ovvio e atavico che, da sempre, corrispondeva
ai nome tramandato di Gela.
Lui era solo un fotografo per matrimoni, io solo un pedante e giovane
studente d'architettura. La città, quella percorsa per tutto
il giorno, era rimasta muta e immutata, in-descritta, come tutte le
cose sfuggite al discernimento: mistero.
Nessun occhio, perché questo era il mezzo prescelto, era riuscito
a carpirne l'orrore e la bellezza. Appurare quei vicoli stretti di
pietra che conducono all'ombra d'agosto, verso quei bagnanti ignudi
e dai sandali rumorosi; aggirarsi per la strada dei mare, come nei
corridoi dei calidaria romani.
Non eravamo riusciti a registrare un suono, quella scampanata delicata
che annunciava l'arrivo della carrozzella ambulante con la granita
da dieci e venti lire.
Non eravamo riusciti a fermare, in un istante di carta, quel bambino
dal costume dimesso che, dal pontile eroso dello sbarco americano,
si offriva di ripescare la monetina lanciata sul fondo profondo cinque
o sei metri.
Ci era sfuggito ciò che metteva insieme quei due signori dai
pantaloni rivoltati sino al ginocchio, che, da qualche tempo, incontrandosi
sul molo d'ovest con la scusa di scambiarsi le esche da pesca, si
innamoravano del tramonto come gratuito cinemascope.
Non avevamo notato quella donna, che aspettava i pomeriggi d'inverno
sperando nella tormenta costiera: uscire imbacuccata, farsi trasportare
nel suono dei mulinelli, capriccio di sabbia.
Nunzio Battaglia,
in Il mare e la città. Progetti di architettura
per lo stagnone di Marsala,
Rubino, Marsala 1999
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